Il Mediterraneo è sempre stato un’area ad alto tasso di tensione. Instabilità politica nel versante sud-orientale, economica e finanziaria in quello nord-occidentale.
Da una parte, quindi, le tensioni in Siria, i postumi ancora incerti della caduta di Gheddafi in Libia, il nuovo ribaltamento istituzionale in Egitto con la destituzione del Presidente Morsi che ha seguito l’eco, non ancora spenta, della fine del regime di Mubarak, i disordini a Istanbul. Dall’altra, le crisi economiche in Grecia, Spagna, Cipro e Italia.
Un contesto irriconoscibile rispetto al 2008, quando Sarkozy ed il premier egiziano Mubarak dettero vita all’Unione Euro-mediterranea, una intesa interstatuale che avrebbe dovuto doppiare, sullo scacchiere meridionale, l’esempio della Unione europea. Mai progetto tanto ambizioso ha avuto vita così breve. Oggi, lo scenario è irriconoscibile.
Ma il Mediterraneo non è il mare nostrum dei paesi rivieraschi. Per secoli l’Inghilterra l’ha presidiato politicamente e militarmente da Gibilterra a Suez passando per Malta, perché era la via di passaggio verso l’impero coloniale: dall’India, alle città portuali di Hong Kong a presidio della Cina, per arrivare fino all’Australia.
La Russia è sempre stata tenuta a distanza, se è vero che non si sono mai concretizzate le prospettive del Trattato di Yalta, in cui pure si prevedeva una Conferenza per esaminare le sue richieste di modifica della Convenzione di Montreux del 1936 che disciplina il passaggio delle flotte militari attraverso il Bosforo ed i Dardanelli. Per essere presente nel Mediterraneo ha bisogno di basi stabili, come d’altra parte accade per gli USA che le hanno, nell’ambito degli accordi Nato, anche in Italia.
Si aggiunge, da qualche tempo, la Cina: sia perché l’Europa è uno dei suoi principali mercati di sbocco, sia perché nell’area mediorientale vi è un’altissima concentrazione di risorse petrolifere, di cui ha bisogno.
Lo scenario odierno è molto cambiato rispetto a quello del 2008, in cui si assisteva al consolidamento dell’Unione europea e all’estensione del modello cooperativo, seppure interstatuale, all’area mediterranea, ma in un più generale contesto di conflitto tra civiltà: quella tradizionale e religiosa musulmana osteggiante quella modernista e laicista occidentale.
Un intero decennio, a partire dall’attacco alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001, è stato caratterizzato dai conflitti portati dall’Occidente in Afganistan e Irak per sconfiggere il terrorismo islamico e il cosiddetto potenziale di distruzione di massa del regime di Saddam Hussein.
Il passaggio all’Amministrazione Obama si è caratterizzato per il nuovo inizio con il mondo arabo: di fatto, sono caduti una serie di Capi di Stato che potevano godere, neppure tanto indirettamente, dell’appoggio occidentale. Anche il regime di Gheddafi, nel 2008, era stato cancellato dall’Amministrazione Bush (anche a fronte di un forte risarcimento in dollari per sanare le conseguenze dell’attentato di Locandiere) dalla black list dei Paesi che praticano e sostengono il terrorismo.
Di fatto, a partire dal 2011, le primavere arabe hanno cambiato i connotati stessi delle istanze socio-politiche nell’area mediorientale: al posto di regimi politici, quantunque illiberali, indirettamente sostenuti o comunque tollerati dall’Occidente impegnato nel conflitto militare contro l’estremismo terroristico dell’Islam jihadista, ci sono sistemi di governo instabili, difficilmente riconducibili agli schemi precedenti. Non sono le rivoluzioni delle elite militari degli anni cinquanta, di tipo nasseriano, imbevute di anticolonialismo; non sono neppure le istanze politiche di paesi desiderosi di un riequilibrio globale nella distribuzione mondiale della ricchezza, che pure hanno caratterizzato i successivi decenni.
Nel vicino oriente siamo approdati ad una situazione di conflittualità interna, che si richiama agli schemi più vari: da quelli fondati sui diversi valori e credi religiosi a quelli riferiti alla rivendicazione delle libertà democratiche, alle più semplici istanze economiche.
Parimenti, nell’area europea periferica, la crisi economica sta portando ad una profonda rivisitazione delle stesse identità politiche collettive, ad una demitizzazione della Unione Europea ancorché ne venga rafforzato il controllo sulle politiche economiche degli Stati.
Siamo entrati in una fase molto incerta della leadership globale degli USA. E’ stata esercitata in modo solitario ed indiscusso negli anni novanta, per un decennio, a partire dalla caduta del Muro nel 1989. Si è indebolita nel successivo decennio, per via dello sforzo bellico iniziato nel 2001, uscendo traumatizzata dalla crisi finanziaria del 2008.
Siamo in un decennio di transizione, in cui anche gli schemi classici che hanno dominato lo sviluppo politico dell’Europa, quello economico della Cina e la ripresa strategica della Russia, sono anch’essi in discussione. E’ nell’area del Mediterraneo, in un cerchio di crisi che si snoda senza soluzione di continuità da sud-est a nord-ovest, che coinvolge l’Europa tutta ed il mondo arabo, che si gioca la partita degli equilibri globali. USA, Russia e Cina non ne sono spettatori, ma protagonisti.
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